WORD-BOAT

Neppure l’emergenza Corona Virus con tutti gli stravolgimenti portati dalla sua ondata più violenta di quella provocata da uno tsunami è riuscita a ribaltare il Word-boat e tutti i suoi anglicismi.
Ancora una volta la lingua inglese si è imposta per definire situazioni.
Tutti a casa o quasi, tranne gli operatori sanitari per ovvi motivi e per altri ovvi motivi chi si occupa di approvvigionarci e riempire le nostre mense e dispense.
Tutti a casa o quasi; e per quelli cui è possibile: SMART WORKING.
Sul sito del Ministero del lavoro e delle Politiche sociali, che con sollievo scopro aver mantenuto il suo nome e non quello con cui spesso lo ribattezzano, WELFARE (termine dal significato estremamente ostico, che tuttalpiù mi fa pensare per assonanza a un “fare bene” senza capire cosa) si entra in materia parlando di smart workingben evidenziato in grassetto.
Al termine in questione viene via via alternato “modalità di lavoro agile”, “lavoro in modalità agile” per poi ripassare a uno smart working senza neretto riproposto quindi più avanti tra parentesi accanto a “lavoro agile”.
E In una sorta di altalena, da par condicio, il testo si conclude con due smart working e un lavoro agile.
Certo smart working è più nobilitante, più “figo", se sei SMART il mondo è tuo.
E neppure hai bisogno della Smart, facilmente parcheggiabile per recarti in ufficio, perché lavori da casa, capanna, caverna a patto di avere connessione internet.
Non hai tempi morti per tragitti stancanti e neppure purtroppo per una sosta-caffè al bar. Per gratificarti allora qualche Smarties senza eccedere giacché spostarsi dal letto alla poltroncina più o meno ergonomica non facilita a conquistare i diecimila passi quotidiani necessari alla salute e a mantenersi in forma.
Ma sei uno dei tanti Smart Workers!
Se ti chiedono cosa fai nella vita, la risposta è semplice: Smart working. E ti senti valorizzato.
Siamo nel campo lessicale dell’intelletto.

Lavoro agile, devo ammetterlo apre altri orizzonti e produce altre visioni, meno intellettuali e più fisiche, anche se si potrebbe chiamare in causa una forma di elasticità mentale sicuramente necessaria.
L’orizzonte è vasto e riempito dalla vista che mi rinviano nell’immaginario le mie figlie che appartengono a questa categoria di lavoratrici in tempi di coronavirus e ogni tanto, in tempi cosiddetti normali: una in maniera occasionale e bisettimanalmente l’altra.
Polivalenti, tentacolari, con sprint da mezzofondiste per spengere il fuoco sotto la pentola dell’arrosto prima che il timer si metta a trillare nel bel mezzo di una video chiamata.
Cercando di conciliare figli, programmare una lavatrice, terminare l’ordine on line dei pannolini del bebè mentre la musichetta del centralino le ha messe in attesa.
Controllare la posta elettronica e rispondere, rispondere al citofono di corsa per ritornare altrettanto di corsa davanti allo schermo ad analizzare grafici, rileggere contratti e ricontrollare posta elettronica che intasa la loro cassetta delle lettere….
Insomma ci vuole un bell’allenamento fisico!
Anche mentale certo, ne convengo.
Ma è inutile, “agile”, in un gioco di associazioni di idee, mi fa pensare a una gazzella, a una tigre magari, alla mia gatta Lucciola che ghermiva piccioni con slancio felino ed elegante.
Insomma si cambia di registro e si indulge più nello sportivo.
C’è chi parla di telelavoro, ma il sito ministeriale non riporta questo termine che, non evoca intelletto, neppure il fisico ma si posiziona a un livello più nazional-popolare da schermo TV.
Poco importa comunque come si chiami questo tipo di occupazione, leggo in un articolo che, in previsioni di nuovi cataclismi, inizi già ad essere superato.
Quello che ci vuole è il lavoro distribuito che rigorosamente prende il nome di “distributed work”.
E come sempre ci sarà chi lavora e chi spiega come lavorare.

Tutti a casa, rinchiusi, tempo di confinamento, che non so bene perché sia diventato un lockdown.
Vivendo in Francia, paese in cui il purismo linguistico e la salvaguardia del patrimonio lessicale sono iscritti nella costituzione ho avuto diritto a un semplice confinement .
E quando si è con-finati si è con-finati ci ricorderebbe il grande Brassens.
Benché io personalmente sia d’accordo con la politica di tutela, a volte mi ribello quando la suddetta è estrema e senza senso.
Il mio riferimento alla costituzione voleva dunque essere leggermente ironico e provocatorio, al limite della battuta, ma come sempre la realtà supera la fantasia, esiste infatti la legge Toubon, beffardamente ribattezzata Allgood.
(Sarà verament tout bon? senza ricorrere a vecchi adagi come quello  attribuito al celebre gastronomo Brillat-Savarin “Tout est bon dans le cochon”, insomma veramente non si butta via nulla?.....magari l'ordi dans les ordures?)*
Ma tornando al nostro lockdown,( da cui prendo ben le distanze e che non mi appartiene), questa parola aveva ben poco risuonato nelle mie orecchie, a parte l’utilizzo fattone da mia cugina che, a sua discolpa devo precisare, vive oltreoceano e lei era ed è veramente locked down .
Gli Italiani ci si sono rassegnati (ben più che meno)dando prova di resilienza e di amore per le lingue straniere. 
Confinamento, isolamento, confino…. Tutte parole sinistre che troppo fanno galoppare la fantasia e rimandano a situazioni tristemente note.
Ecco che forse chiamarlo lockdown, che fa tuttalpiù pensare a un lucchetto facilmente scardinabile, ammesso che evochi qualcosa e non, magari, il nulla più assoluto, è sicuramente più soft  e “politically correct”.
E poi vuoi mettere…con le scuole chiuse oramai da mesi e che non riapriranno prima di mesi, con le vacanze studio in Inghilterra che sono diventate pura utopia, lanciamoci in una full immersion home made con smart working, riavviciniamoci allo stepchild rimasto lontano per lockdown, speriamo nel welfare con o senza jobs act , distraiamoci sui social network, cambiamo brand, scegliamone uno trendy, ordiniamo online quello che  must-have …..e “what else”???
Thank you, George, but caffeine free, please!
Le coronarie sono già troppo provate.
Grazie Giorgio siamo tutti nella stessa barca, on the same boat.


* Ordi, accorciativo di ordinateur (parola creata nel 1955 per tradurre il già esistente computer )
dans les ordures, tra i rifiuti. 

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